Sabato scorso ho fatto una visita alla mia vecchia scuola, volevo salutare un po’ di persone. È stato strano, ma per spiegare meglio il turbinio di emozioni che avevo in testa serve una premessa.
Ho passato in quella scuola i cinque anni delle superiori e da quella esperienza sono felicemente uscito dieci anni fa. Sei anni dopo invece ci sono rientrato come insegnante, cercavano con urgenza un supplente di informatica e gli era capitato sotto mano il mio nominativo. Questa avventura è durata, purtroppo, solo quattro mesi.
È stato strano rientrare in quella scuola come insegnante, trovarsi nello stesso edificio e con le stesse persone, ma dall’altro lato della cattedra. È stato difficile abituarsi all’idea che i vecchi professori fossero improvvisamente diventati nuovi colleghi, e di conseguenza passare da un reverenziale lei ad un colloquiale tu; fortunatamente con tutti coloro che erano rimasti avevo un buon rapporto, che di conseguenza è solo migliorato. Nel complesso insegnare è stata un’esperienza fantastica che ricordo volentieri.
Ma quindi perché settimana scorsa mi sono sentito quel groppo alla gola solo avvicinandomi alla scuola? Perché salivo a fatica le scale che portavano all’ingresso? Perché in portineria mi sono presentato come ex studente al posto che come ex professore? Infine, perché quel tu tanto colloquiale rimaneva strozzato in gola sostituendo amichevoli ciao con freddi salve?
Alla fine avevo deciso volontariamente di andare, non avevo obblighi né pratiche arretrate di quattro anni da sbrigare. L’idea era arrivare nella breve pausa dell’intervallo e di salutare quanti più ex professori ex colleghi fosse stato possibile. Dato che erano tutte persone che avevo piacere di rivedere, da dove arrivava tutta quella reticenza che mi aveva fatto procrastinare la visita per svariati mesi?
Infine sono riuscito a rispondermi: non erano le persone né le mura a trattenermi, ma la scuola in sé intesa come istituzione che ho imparato ad odiare. Un posto che troppo spesso pare creato per sfornare tanti piccoli automi privi di ogni qual si voglia forma di creatività; un posto che vive in una costante carenza di fondi e per questo offre sempre meno di quello che dovrebbe; un posto che riesce ad essere opprimente anche per i professori; infine, un posto che un susseguirsi di ministri, nell’illusione di migliorarlo o nella vana gloria di lasciare il proprio nome su una legge, continuano a martoriare con delle riforme senza rendersi conto che invece servirebbero delle rivoluzioni.
Ci sono altre persone che non sono riuscito a salutare, ed alcune con cui vorrei avere l’opportunità di parlare più a lungo, ma di sicuro aspetterò prima di una nuova visita. Non altri quattro anni spero, ma un po’ di tempo ci vuole per potere lasciare sedimentare nuovamente tutte queste emozioni.
E siccome voglio evitare a vecchi rancori di tornare a galla, al posto di continuare a ricordare eventi passati, chiudo questo articolo con la riflessione che avevo fatto la sera della mia prima lezione su un blog che è morto troppo presto.
Nella pelle del lupo
Questo è il mio primo post, quindi è d’obbligo che si inizi con una presentazione.
Iniziamo innanzitutto col dire che sono uno studente, uno studente che solo per uno strano caso è diventato un prof. Passiamo quindi senza indugi al racconto di come è iniziata questa avventura.Sono stato chiamato un giorno dal preside della mia vecchia scuola, mi diceva che avevano bisogno di una supplenza e che si erano ricordati di me… come avessero rintracciato il mio cellulare rimane tuttora un mistero, non avevo mai lasciato curriculum o miei recapiti. Anzi, da quando mi ero diplomato praticamente non avevo messo più piede in quella scuola, e dire che di tempo ne era passato…
Però i brutti ricordi legati a quei tempi, quei ricordi che evocavano sensazioni che mi hanno attanagliato per anni, che hanno perfino fatto si che evitassi di percorrere quella strada, sembravano ormai lontani, dimenticati, sepolti nelle zone più oscure del mio cervello. Quindi, dopo un non troppo breve colloquio col preside, decido di accettare: è sempre un’esperienza, fa curriculum, è un modo per arrotondare un po’ le mie scarse finanze e poi magari scopro una mia attitudine nascosta; devono essere state queste le cose che più o meno mi sono passate per la testa quando ho accettato.
Così, nemmeno il tempo di dire sì e scopro che devo iniziare il giorno successivo. Ok, vediamo, che parta questa nuova avventura. Prendo le fotocopie col programma ministeriale, quello di istituto e quello del professore che sostituisco; i libri no, ovviamente non ci sono… e su cosa mi preparo? cosa dico domani? va beh… è la prima lezione… si sa che si fa sempre poco la prima lezione con un nuovo prof… Così tra questi pensieri mi avvio verso casa.
La notte passa senza problemi, sveglia presto, meglio arrivare con un po’ di anticipo.
Parcheggio la macchina, mi incammino verso l’ingresso. Per quanto sia arrivato abbastanza prima dell’apertura della scuola ci sono in giro già un po’ di alunni, li guardo, ascolto i loro discorsi: c’è chi semplicemente chiacchiera del più o del meno, chi parla preoccupato di interrogazioni, chi di compiti non fatti o non riusciti. Questi discorsi iniziano a risvegliare vecchi ricordi, proprio quei ricordi che pensavo (anzi, speravo) sopiti. Inizio a ricordarmi quando ero lì, quando ero obbligato a stare lì, quando passavo (sprecavo) i miei giorni in quel posto.
La poca strada da fare fino all’ingresso diventa mano mano più pesante, quasi come scalare una montagna: chi me lo ha fatto fare… sto entrando nella tana del lupo… ma la cosa peggiore non è tanto questo, quanto la tremenda sensazione di sapere che, ora, sono io il lupo!